Le difficoltà avute dal sito dell’INPS durante l’emergenza coronavirus sono solo l’ultimo degli episodi che suggeriscono di ripensare al modello delle finte Partite IVA, sul quale il settore IT si è basato negli ultimi decenni.
La notizia delle difficoltà avute dal sito dell’INPS nei primi giorni di aprile, ha avuto molta eco sulla stampa. Sarebbe sbagliato, però, limitarsi a commentare il caso specifico senza mettere in discussione il modello di erogazione dei servizi IT. Da decenni, ormai, nel mercato IT si è ritagliato un posto importante (ma fortunatamente non ancora totalitario) un modello di outsourcing basato sul subappalto a cascata. Accanto ad alcuni vantaggi, presenta anche aspetti negativi che vanno considerati con attenzione, alla luce dei cambiamenti economici e sociali all’orizzonte.
Per i pochi che non lo conoscono, funziona così: invece di assumere personale per gestire i progetti informatici al proprio interno, aziende ed enti scelgono fra due vie: dare in subappalto l’intero progetto, oppure affittare “risorse” da affiancare al personale interno, secondo le necessità del momento. Di fatto, rinunciano in tutto o in parte al proprio knowhow in cambio di una gestione del personale più flessibile e, in prospettiva, meno onerosa.
Chi riceve l’appalto intero o la richiesta di fornitura di un certo numero di consulenti, spesso, è una società di consulenza; se questa non ha in sé tutte le “risorse” necessarie, le cerca in affitto presso altre società di consulenza. Il ciclo si ripete finché si trova qualcuno di adatto o adattabile.
Il curriculum di ogni “risorsa” così faticosamente trovata è stampato su carta intestata di ogni società, a salire. Ciascuna lo presenterà come proprio collaboratore al livello successivo della catena. Alla fine sarà presentato al cliente che, spesso, lo accetterà senza ulteriori controlli, fidandosi della garanzia del suo interlocutore. Dopo l’approvazione, la “risorsa” – che deve avere una Partita IVA – firma un contratto con l’ultima società di consulenza e parte la catena dei subappalti. Di fatto, cessione di lavoratori in affitto.
Alla fine di questo percorso, il cliente finale ha tutte e sole le “risorse” che servono, quando servono e con le competenze richieste; lo garantisce la società di consulenza. Questa, a sua volta, diventa depositaria del knowhow del cliente, fidelizzandolo, mentre i rapporti con le “risorse” possono cessare in qualsiasi momento, senza oneri.
Sarebbe un meccanismo perfetto, se la “risorsa” non fosse una persona in carne e ossa. Una persona con le sue ambizioni, le sue competenze e la sua professionalità. Con questo meccanismo, che spesso è l’unico modo per trovare lavoro, non ha prospettive di carriera, difficilmente si vedrà riconosciute competenze superiori a quelle per cui ha firmato il suo contratto, anche se le dovrà usare spesso, e non ha nessuna garanzia sulla durata del lavoro. Gli sono richiesti gli obblighi dei dipendenti e sopporta gli oneri della (falsa?) Partita IVA.
Come se le prospettive non fossero già disarmanti, la catena che lo lega al cliente finale non è gratuita: quando va bene, riceve circa il 50% di quello che il cliente versa alla società per cui egli fa finta di lavorare. Siccome dal suo lavoro tutti devono guadagnare, si innesca una corsa al ribasso: la “risorsa” che chiede meno ha più probabilità di essere scelta. E chi chiede di meno, di solito, ha meno competenze ed esperienza; in poche parole, più guadagno da un lato e meno qualità dall’altro.
Il risultato inevitabile di questo sistema è che i migliori professionisti cercano altre strade, portandosi via preziose conoscenze e depauperando le sue controparti. Usato nella giusta misura, il subappalto può dare più valore a tutte le parti coinvolte; quando eccede, invece, finisce col premiare la mediocrità e abbassare la qualità del prodotto. Non solo: per essere competitivi, la prima cosa sulla quale le aziende di piccolo e medio calibro risparmiano è l’analisi, spesso superficiale o meglio ignorata perché costa troppo, affidandola totalmente ai programmatori, i quali spesso non hanno la preparazione necessaria a gestirla.
In questo sistema, anche quando le persone coinvolte lavorano al meglio delle loro possibilità i problemi esso nasconde possono facilmente andare oltre le loro capacità di gestione. I problemi legati al software, come quello occorso all’INPS, balzano sempre più spesso agli onori della cronaca ed evidenziano situazioni ormai insostenibili.
I casi più eclatanti, molti di voi lo ricorderanno, riguardano gli incidenti aerei dei Boeing 737-Max, per i quali si parlò di problemi legati ai risparmi nello sviluppo. I casi più comuni, invece, sono gli aggiornamenti di Windows 10, che a volte sembrano portare in sé più problemi di quanti ne risolvano. Anche questi, si dice, sarebbero stati causati dalla riduzione dei team di sviluppo all’interno di Microsoft; non è chiaro se si tratti anche qui di esternalizzazione, ma l’effetto è stato il conseguente ridimensionamento dei test che precedono il rilascio.
Questo è un punto importante: i test. Nella corsa al risparmio, l’unica cosa che può ancora assicurare la qualità finale dei programmi sono test ben fatti. Negli anni ’80 si diceva che il 20% del tempo/uomo di un progetto normale dovrebbe essere dedicato ai test, ma dove sono in gioco vite umane (controllo di impianti industriali pericolosi, centrali nucleari, sistemi di trasporto, armamenti…) la percentuale non dovrebbe scendere sotto l’80%. L’automazione dei test, oggi, può aver leggermente cambiato queste percentuali, ma non moltissimo. Eppure, nei progetti normali il beta testing è spesso demandato all’utente che riceve una versione non adeguatamente verificata del software, i cui problemi sono risolti a mano a mano che vengono segnalati.
E nei progetti critici? Se si vuole risparmiare, farlo solo sul 20% del tempo di sviluppo non offre molte opportunità. In ogni ambito, quindi, è necessario sacrificare i test, con tutti i rischi che queste scelte comportano. Dalle notizie che abbiamo letto finora, sembrerebbe che uno stress test completo in pre-produzione avrebbe potuto rilevare il problema di caching che ha divulgato dati sensibili dell’INPS; l’ipotesi che non ce ne sia stato il tempo è, purtroppo, verosimile.
Queste, sia chiaro, non sono accuse, che sarebbero fuori luogo, ma solo le basi di una riflessione generale per imparare qualcosa dal down del sito INPS. Se è vero, come ha scritto Giovanna Maglie, che ” il responsabile dell’informatica [dell’INPS, nda] è un dirigente che viene dall’INPDAP, buona esperienza di gestione del personale, ma non di informatica”, e che i servizi sono stati dati in appalto a più società esterne, si percepisce quanto poco sia apprezzato il valore della preparazione informatica; domanda inevitabile, se pensiamo che l’IT che ormai sta permeando la nostra società.
Forse per questo, allora, la pratica dei subappalti a cascata – un segreto di Pulcinella – è diventata così diffusa nel settore IT? Se non si percepisce il valore di qualcosa che pure è necessaria, si cercherà di spendere il meno possibile per ottenerla. Con questo metodo di erogazione del lavoro, tutti i soggetti più forti hanno goduto di vantaggi o ottenuto risparmi; ma ci sono chiari segnali che forse i costi stanno diventando troppo onerosi e che nel breve e medio periodo potrebbero non essere più sopportabili.
Già a metà degli anni zero qualche grosso gruppo industriale si era mosso per contrastare il fenomeno, pur senza risultati totalmente apprezzabili; si iniziava a capire che, se spinto oltre i fisiologici livelli che agevolano l’incontro tra domanda e offerta, diventava una forma di parassitismo assai costosa e deleteria.
Ora ci avviamo verso un periodo incerto; nel breve termine non si vede come anche il settore del software possa sfuggire a significative riduzioni di investimenti. E’ improbabile, quindi, che queste catene di subappalti possano sopravvivere, a meno di abbassare ulteriormente la qualità dei prodotti. Al contrario, accorciare la distanza tra utente finale e manodopera produttiva, tagliando i rami secchi, potrebbe portare immediati risparmi e premiare chi garantisce maggior qualità; i benefici, finalmente, sarebbero concentrati sulle attività davvero produttive. In prospettiva, sarebbe il modo più solido per assicurare la ripresa del settore e, essendo la nostra società dipendente dall’IT, del Paese.
Mentre la pandemia ha spezzato l’illusione di poter controllare la realtà e lo stesso destino del mondo solo attraverso la tecnologia, ci si accorge della fragilità delle infrastrutture IT e di quanto ancora ci sia da lavorare per portarle livelli soddisfacenti; non solo in termini di adeguamento infrastrutturale, appunto, ma di cultura e di etica del lavoro. Questa necessità, che ci porterà ad ammodernare il settore IT in Italia, si preannuncia impegnativa. Dai servizi ai cittadini all’e-learning, dalla GDO alle comunicazioni, non v’è settore in cui non si veda la necessità di miglioramenti strategici.
Si tornerà a remunerare nella giusta misura capacità e competenze? Riporteremo il rapporto tra cliente finale e manodopera su binari più virtuosi? Sapremo tagliare gli sprechi per convogliare le risorse economiche su attività davvero fruttuose? Non lo sappiamo; ma se non sarà così, avremo perso un’occasione forse irripetibile e casi come quelli di Boeing, INPS e Microsoft potrebbero diventare la norma.
Foto di copertina: Michal Jarmoluk da Pixabay
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