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Perché Twitter che limita Trump non è democrazia, ma un fallimento

Dopo gli scontri di Washington del 6 gennaio 2021, i maggiori social network hanno sospeso o limitato gli account di Donald Trump. Il presidente, secondo molti, sarebbe il principale responsabile di quanto accaduto e alcuni social hanno deciso di limitare o bloccare la sua possibilità di comunicazione attraverso i loro servizi.

Democrazia o censura?

Questa decisione ha suscitato molte reazioni, anche in Italia. La maggior parte si sono focalizzate sui loro aspetti politici; alcune, però, hanno affrontato i problemi legati alla comunicazione sui nuovi media e le loro implicazioni sociali. Fra questi ultimi, alcuni hanno parlato di atto democratico, altri di censura. Le posizioni espresse ci sembrano ben riassunte da due interventi.

Twitter che limita Trump è democrazia?

Il 7 gennaio, Massimo Sideri ha pubblicato sul Corriere della Sera un commento intitolato “Perché Twitter che limita Trump è democrazia, non censura“. In estrema sintesi, sostiene che questa mossa “è il ritorno del dibattito tra politica e cittadini, la separazione tra medium e contenuto con una figura intermedia che, storicamente, è stata rappresentata dal giornalismo” e che ha “di fatto riesumato le care e vecchie regole di un giornalismo che fa fatica a ritrovare il proprio ruolo nella società”.

Twitter che limita Trump è censura?

Massimo Cacciari, il giorno seguente, ha espresso posizioni diametralmente opposte, sostenendo:

“C’è un problema di fondo, che è al di là e al di fuori di Trump. E’ inaudito che imprenditori privati possano controllare e decidere loro chi possa parlare alla gente e chi no. Doveva esserci un’autorità ovviamente terza, di carattere politico che decide se qualche messaggio che circola in rete è osceno, come certamente sono quelli di Trump.”

I social fra libertà e anarchia

Confessiamo che nessuna di queste posizioni ci sembra pienamente soddisfacente, benché il pensiero di Cacciari si avvicini di più al cuore del problema. Per spiegarne il motivo, però, dobbiamo chiederci se i concetti di libertà, democrazia e censura si siano mai veramente applicati alla rete.

Il mito della libertà totale

La totale libertà di Internet è stata sostenuta da gruppi, più o meno organizzati, che hanno cavalcato il mito di un mondo virtuale senza regole; o, meglio, senza limiti, nemmeno quello elementare del rispetto della libertà e della proprietà altrui. Una sorta di anarchia costruttiva, per così dire, che si presuppone positiva e che risale all’inizio del secolo.

Su questo mito, oltre che sulla necessità di aggregare contenuti sempre più vasti, i social hanno creato il proprio modello vincente: tutti parlano a tutti; tutti possono dire quello che vogliono a tutti. Conseguenza di queste premesse è che la piattaforma si propone come un vettore passivo, il cui ruolo è solo veicolare i messaggi degli utenti. La responsabilità di quanto si scrive sui social, secondo questa visione, è interamente degli utenti; i proprietari della piattaforma, quindi, non sono tenuti a intervenire sui contenuti.

Questa posizione è stata difesa strenuamente, in nome della libertà di espressione, anche di fronte a usi dei social che l’opinione pubblica ha percepito negativamente; ha ceduto, però, di fronte alla tutela dei diritti d’autore. Fece discutere, una decina d’anni fa, il caso di YouTube che aveva rifiutato di cancellare un video contenente scene di violenza, ma già iniziava a rimuovere spezzoni di partite di calcio coperte da copyright. In seguito, opportunamente, YouTube e gli altri social adeguarono le proprie norme per evitare il ripetersi di episodi del genere; così, però, incrinarono la fede nel mito.

Regole, ma quali?

L’esigenza di regolamentare l’uso dei social, così come accaduto per ogni mezzo di comunicazione in passato, si è scontrata con novità oggettive, di fronte alle quali ci si è trovati impreparati. Un blog può essere scritto da una persona che risiede in un Paese diverso da quello in cui si trova il server che lo ospita; ciò permette di aggirare le leggi nazionali con grande facilità, e di offrire i contenuti al mondo intero.

Fin dal 1995, fu introdotta la Netiquette, una sorta di nuovo Galateo che tutti i membri della comunità di Internet erano chiamati a rispettare. La Netiquette rispecchiava i principi delle comunità che fino ad allora avevano sviluppato la rete: comunità per lo più scientifiche, che avevano spirito costruttivo e collaborativo. Anch’essa però, non ha retto l’urto del mito della totale libertà di espressione e sembra essere dimenticata dai più.

L’unica via percorsa fino ad oggi, quindi, è stata quella della policy di ciascuna piattaforma; un’autoregolamentazione, insomma, che risponde a interessi tanto etici quanto economici. Si tratta di scelte private che possono essere alterate o applicate in modo arbitrario pur senza violare i limiti dei contratti con gli utenti; come ha notato Cacciari, restiamo nell’ambito della gestione privata di quello che è ormai percepito da molti come un diritto pubblico. E’ evidente, inoltre, che qualsiasi regolamentazione non può che essere in conflitto con il mito della libertà di espressione.

Social network o giornalismo?

D’altro canto, il “tutti parlano a tutti” ha cambiato il modo di comunicare nella società elettronica; la visione di McLuhan dei media come terminali del nostro sistema nervoso elettronico è superata. Siamo tutti sinapsi: ciascuno è editore di sé stesso, comunica al mondo senza mediatori così come può leggere e ascoltare chi vuole, senza filtri. Anche i modelli tradizionali di comunicazione, perciò, sembrano in crisi davanti a questo meccanismo.

L’uso dei social per sostituire i tradizionali canali giornalistici è diffuso a tutti i livelli; se ne hanno esempi che spaziano dalle strutture operanti come veri uffici stampa, alle comunicazioni istituzionali. Anche il primo ministro Conte, durante la pandemia dovuta al Covid-19, ha parlato alla nazione attraverso YouTube e Facebook; i classici canali del servizio pubblico, come la Rai, sono stati scavalcati. La figura del giornalista è stata messa in crisi; le reazioni principali, però, sono state di chiusura alle novità e di netta separazione fra giornalisti e blogger, arrivando fino alla richiesta di cestinare fonti non giornalistiche.

Paradossalmente, l’ultimo tentativo di assimilare i social alla stampa porta la firma di Donald Trump ed ha suscitato reazioni assai scettiche: i social network, infatti, non hanno natura né prevalente finalità informativa.

Né democrazia, né censura

Non è facile, in conclusione, accettare né la tesi di Sideri, né quella di Cacciari; pur contenendo molti elementi di verità, non sembrano partire da una comprensione globale del fenomeno dei new media.

Ha ragione Sideri, quando afferma che il mito della libertà totale ha portato alla situazione in cui “tutto è relativo e tutto è opinione”. Ma per questo è possibile salutare la scelta di Twitter come un ritorno al giornalismo tradizionale? Quale ritorno, se i principi del giornalismo sono sempre stati estranei al modello dei social network? E in che modo lo si ottiene, se è stato silenziato solo un politico?

Per lo stesso motivo, non ci pare di vedere nemmeno un atto democratico, dal momento che la libertà di espressione ne è elemento fondamentale e, come nota Cacciari, andrebbe limitata solo dalle autorità.

Viceversa, in una situazione di emergenza come quella che si è verificata a Washington, chi può prendersi la responsabilità di lasciare che messaggi ritenuti da molti alla base degli scontri circolino liberamente? Nessuno, laddove crede di capire che vite umane e istituzioni democraticamente elette sono in pericolo, può eludere a cuor leggero il principio Salus populi suprema lex esto; al contrario, è tenuto ad intervenire in modo coerente.

Dove abbiamo fallito

La scelta di Twitter che limita Trump in un momento di inaudita tensione, in sé, si potrebbe configurare come risposta eccezionale a una situazione eccezionale; su questa linea, peraltro, si è mosso Mark Zuckenberg, spiegando la sua decisione di chiudere gli account di Trump su Facebook e Instagram. Eppure, le decisioni che sono seguite nei giorni successivi – dall’account di Trump su Twitter prima riattivato e poi sospeso, fino alla rimozione da Google Play dell’app di Parler, un social network associato ai sostenitori di Trump – hanno fatto sorgere dubbi anche ai più accesi rivali del presidente statunitense. Dubbi, domande, ma nessuna risposta concreta.

Il motivo, secondo noi, è che si sta cercando di interpretare quello che è successo con categorie tradizionali ormai inadeguate. Che cos’è la democrazia, in rete? E come definiamo la censura, se l’idea di libertà si è liquefatta? Il populus in che cosa si riconosce? Occorre aggiornare questi concetti, elaborando un linguaggio nuovo per descrivere un mondo nuovo, e lasciare da parte pregiudizi politici, difese corporativistiche e quanto impedisce di fare chiarezza su un fenomeno per troppo tempo lasciato a sé stesso.

Il modo in cui si esercita il fondamentale diritto di espressione è mutato, senza che nessuno ne prevedesse una regolamentazione globale; anzi, spacciando per neutre delle realtà i cui fondatori, inevitabilmente, si ispirano a precisi orientamenti politici. Essere arrivati a questo punto, a nostro avviso, è un fallimento per la nostra società, perché il controllo sistematico dell’informazione è molto più pericoloso della censura occasionale. Inaccettabile di per sé, è esecrabile soprattutto se delegato de facto a pochi soggetti che operano in modo opaco.

La posta in gioco

Questa, in fondo, è la posta in gioco: non salvare il giornalismo né evitare il ritorno della censura, ma sventare il controllo totale dell’informazione. Tutti noi, che a livelli differenti operiamo nel settore della comunicazione e dell’informazione elettronica, dovremmo sentire questo problema come realmente nostro; anche a costo di rinunciare a qualche strumento tecnologico che non siamo ancora pronti a usare responsabilmente.

Paolo Morandotti

Professionista nel campo del software con trent'anni di esperienza, ama studiare le ricadute sociali delle tecnologie sulle quali ha realizzato vari programmi radiofonici.

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